Contenziosi fiscali e tributari

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L’avvocato tributarista, grazie ad una profonda conoscenza della legislazione tributaria e delle relative procedure amministrative, fornisce una consulenza legale specializzata. Identifica le migliori strategie per negoziare con gli Enti creditori, assiste i contribuenti nell’elaborazione di ricorsi e appelli e li rappresenta innanzi alle commissioni tributarie. L’avvocato tributarista quindi supporta aziende e persone fisiche in tutte le fasi che vanno dalla prevenzione dei rischi tributari fino all’eventuale gestione del contenzioso.

Approfondimenti

 

Opposizione ad una cartella di pagamento

L’Agenzia delle entrate-Riscossione ha il compito di riscuotere, ma la richiesta di pagamento arriva dagli enti pubblici creditori (Agenzia delle Entrate, INPS, Regioni, INAIL, Comuni, ecc…).
Pertanto la richiesta di annullamento (detto “sgravio”) di una cartella di pagamento è da fare direttamente all’ente creditore a cui è riferito il tributo.

Esistono due forme di opposizione alle cartelle esattoriali:

  • opposizione agli atti esecutivi: muove contestazioni di natura formale in merito alla regolarità della cartella di pagamento o dell’accertamento esecutivo.
  • opposizione all’esecuzione: muove contestazioni di natura sostanziale in merito alla legittimità della cartella di pagamento, o per mancanza originaria del diritto del creditore o per sopravvenuta mancanza (prescrizione).

I vizi di sostanza quindi attengono all’esistenza del credito e all’entità dello stesso. Se invece la cartella di pagamento non dovesse riportare alcuni dati essenziali, si presenterebbe un vizio di forma che renderebbe illegittima la cartella, senza però annullare il debito.

I vizi di forma possono essere:

  • mancata indicazione del responsabile del procedimento;
  • omessa notifica dell’atto prodromico: la cartella è illegittima se il contribuente non ha prima ricevuto l’atto di accertamento (quello inviato dall’ente titolare del credito) contro cui eventualmente opporsi. Il procedimento di riscossione è considerato in modo unitario e l’illegittimità di uno solo di questi decreta la nullità di tutti quelli successivi;
  • mancata indicazione dei termini per contestare ed eventualmente fare opposizione;
  • mancata indicazione dell’anno di imposta a cui il tributo si riferisce (necessario per verificare se sono stati rispettati i termini di prescrizione e decadenza);
  • mancata indicazione dell’organo o l’autorità amministrativa presso cui è possibile promuovere un riesame dell’atto in autotutela;
  • mancata indicazione riguardo le modalità, i termini e il tribunale presso cui fare ricorso;
  • mancata indicazione degli interessi: la cartella deve specificare i criteri di calcolo degli interessi e l’ammontare per ogni annualità, in modo che sia possibile verificare che gli stessi siano stati conteggiati correttamente.

I vizi di sostanza (detti anche vizi di merito) possono riguardare:

  • l’estinzione del debito per avvenuto pagamento;
  • la sospensione del titolo a seguito di ricorso al giudice;
  • il difetto di motivazione della cartella: la cartella deve indicare la ragione del debito e quindi dovrà richiamare gli estremi di un tributo non versato, un avviso di accertamento, una contravvenzione, ecc..;
  • prescrizione del debito: la prescrizione non opera automaticamente, ma deve essere eccepita nel ricorso al giudice, il quale ,una volta accertata, dichiara estinto il debito.

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Come procedere se una cartella è ritenuta illegittima

Se la cartella dell’Agenzia delle entrate – Riscossione è ritenuta illegittima, si possono intraprendere diverse strade per impugnare l’atto entro i termini previsti:

  • chiedere l’annullamento in autotutela all’ente creditore che sta contestando il debito;
  • chiedere la sospensione della riscossione all’Agenzia delle entrate Riscossione;
  • richiedere l’annullamento con ricorso al giudice.
  • consultare con tempestività un avvocato specializzato può rivelarsi determinante per tutelarsi.

Annullamento in autotutela

Il contribuente identifica i motivi per cui ritiene che la cartella esattoriale emessa nei suoi confronti sia illegittima e li comunica all’Ente creditore, sollecitandolo ad annullare il debito.

Se l’Ente annullerà, in tutto o in parte il debito, invierà all’Agenzia lo “sgravio”, cioè l’ordine di annullare il debito. L’Agenzia in questo modo cancellerà quel tributo dalla cartella.

Se invece l’ente non risponde o rigetta l’istanza, l’Agenzia procederà con la riscossione.

A differenza della richiesta di sospensione presentata direttamente all’Agenzia delle entrate – Riscossione, l’istanza di autotutela presentata all’ente non sospende gli effetti della cartella, quindi non sospende i termini per fare un eventuale ricorso al giudice e, una volta scaduti, consente all’Agenzia di procedere con i provvedimenti esecutivi.

Richiesta di sospensione all’Agenzia delle entrate – Riscossione

Il contribuente, se ritiene che la richiesta di pagamento non sia dovuta, effettua una comunicazione direttamente all’Agenzia per sospendere la procedura di riscossione. L’Agenzia sospende la riscossione e invia la richiesta di verifica all’Ente creditore. L’Ente valuta la richiesta e informa il contribuente solo in caso di esito negativo. Se non vi è risposta da parte dell’ente, il debito si annulla.

Richiedere l’annullamento con ricorso al giudice

Per chiedere di annullare, in tutto o in parte, il debito presente nella cartella, è possibile fare ricorso all’autorità giudiziaria competente.

Il ricorso in opposizione alla cartella esattoriale va presentato a:

  • Commissione Tributaria Provinciale entro 60 giorni dalla notifica della cartella di pagamento, se si tratta di tributi statali come l’Irpef, l’Ires o l’Iva o tributi locali come l’Imu o il bollo auto.
  • Giudice del Lavoro entro 40 giorni dalla notifica della cartella di pagamento, se si tratta di contributi previdenziali come Inps o assistenziali come Inail. Se si eccepiscono vizi formali della cartella il termine è dimezzato (20 giorni).
  • Giudice di Pace entro 30 giorni dalla notifica della cartella di pagamento, se si tratta di sanzioni amministrative come le multe stradali.
  • Tribunale Ordinario per crediti relativi alle sanzioni amministrative non di competenza del Giudice di Pace.
  • Giudice dell’esecuzione qualora si volesse proporre opposizione a cartella esattoriale a esecuzione forzata (pignoramento) già in atto.
  • In sede di impugnazione si può chiedere la sospensione dell’esecuzione. Se il Giudice concede la sospensione, le procedure esecutive non potranno essere avviate fino all’esito del ricorso. Se invece il Giudice non concede la sospensione, il contribuente, per evitare di subire l’esecuzione forzata, dovrà pagare quanto richiesto.

Se il giudice accoglierà il riscorso, l’Ente dovrà annullare il debito e al provvedimento di sgravio del tributo dovrà seguire il rimborso, totale o parziale, delle somme eventualmente già pagate.

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Contenzioso tributario: cos’è, come funziona

Il contenzioso tributario è il procedimento giurisdizionale che ha per oggetto le controversie di natura tributaria tra il contribuente ed un ente impositore:

  • Agenzia delle Entrate;
  • Comune;
  • Provincia;
  • Regione;
  • Altro…

Al procedimento può ricorrere un contribuente, quando ritiene che un atto dell’amministrazione finanziaria (una cartella di pagamento, un avviso di accertamento, ecc..), che è stato emesso nei suoi confronti, non sia fondato o legittimo.

Il processo tributario si può articolare in varie fasi e può attraversare più gradi di giudizio:

  • Primo Grado di merito: dinanzi alla Commissione tributaria provinciale (CTP) territorialmente competente che esamina il caso iniziale.
  • Secondo Grado di merito: dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale (CTR) per la gestione degli appelli qualora si intenda impugnare la sentenza emessa dalla Commissione tributaria provinciale.
  • Giudizio di legittimità: la Corte di Cassazione interviene su questioni di legittimità.

Per avviare un contenzioso e chiedere l’annullamento dell’atto (totale o parziale), è necessario proporre un apposito ricorso presso la Commissione tributaria provinciale competente.

Il ricorso deve essere notificato nei sessanta giorni successivi a quello in cui l’atto impugnato è stato ricevuto dal contribuente.

Per le controversie di valore fino a 3.000 euro il contribuente può stare in giudizio autonomamente dinanzi alle commissioni tributarie provinciali e regionali (prime due fasi di giudizio).

Per le controversie di valore superiore è indispensabile munirsi di assistenza legale.

La discussione del ricorso

La controversia è trattata, solitamente, in camera di consiglio, ovvero in assenza delle parti.

È comunque possibile che venga discussa in udienza pubblica, ma in questo caso è necessario che la parte interessata a tale eventualità avanzi una richiesta presso la Commissione, depositando la relativa istanza in segreteria.

L’appello contro la sentenza della Commissione Provinciale

Nel caso in cui si voglia ricorrere contro la sentenza della Commissione provinciale, è necessario fare appello alla Commissione regionale competente, entro i sessanta giorni successivi alla data in cui è stata effettuata la notifica.

In assenza di notifica della sentenza della Commissione tributaria provinciale, il termine è di sei mesi a partire dalla data in cui la sentenza è stata pubblicata.

Sospensione dell’atto impugnato

La proposizione del ricorso non sospende gli effetti giuridici dell’atto ritenuto illegittimo.

Tuttavia il contribuente ha la possibilità di presentare un’istanza apposita presso la Commissione tributaria competente, al fine di chiedere la sospensione nel caso in cui ritenga che l’atto stesso sia potenzialmente in grado di provocargli un danno grave e irreparabile.

Se la Commissione concede la sospensione, gli effetti permangono fino alla data di pubblicazione della sentenza di primo grado.

 

Cosa fa l’Avvocato tributarista

L’avvocato tributarista è uno specialista in materia di diritto tributario.

Orienta persone fisiche e imprese attraverso la complessa rete di leggi e regolamenti fiscali, fornendo consulenza e assistenza nei rapporti tra loro e l’Agenzia delle entrate, l’Agenzia delle entrate – Riscossione e gli Enti locali.

Grazie alla sua esperienza e alle sue competenze riguardo le procedure tributarie, costruisce solide argomentazioni a difesa dei diritti e degli interessi del cliente.

In caso di controversie rappresenta i contribuenti dinanzi agli organi della giustizia tributaria.

L’avvocato tributarista, a seguito della notifica di un avviso di accertamento o di una cartella di pagamento, presta assistenza al fine di ottenere l’eliminazione integrale o parziale della pretesa tributaria.

Innanzitutto valuta la legittimità dell’imposizione tributaria e gli eventuali vizi di nullità delle cartelle di pagamento notificate al contribuente.

Successivamente, a seconda dei casi procederà attraverso istanza in autotutela o con la presentazione di ricorso e relativa difesa giudiziale (in primo grado innanzi alla Commissione tributaria provinciale, in secondo grado innanzi alla Commissione tributaria regionale e, in alcuni casi, presso la Corte di Cassazione).

La profonda conoscenza delle leggi fiscali permette all’avvocato tributarista di identificare le migliori strategie per la gestione delle controversie.

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Quanto costa un ricorso tributario?

La proposizione di un giudizio tributario implica due tipologie di costi:

  • le spese vive (il contributo unificato);
  • l’onorario da corrispondere al proprio avvocato che può incidere notevolmente sul costo complessivo del ricorso.

Il contributo unificato è una tassa che deve essere versata al momento del deposito dell’atto introduttivo del giudizio tributario. Questo contributo è calcolato in base al valore della controversia, che si individua facendo riferimento all’importo del tributo al netto delle sanzioni eventualmente previste dall’atto impugnato e degli interessi.

Nel caso in cui la lite abbia a che fare unicamente con l’irrogazione di sanzioni, è la somma di queste a costituire il valore.

Gli importi del sono suddivisi in sei scaglioni:

Valore della controversia / Contributo unificato

  • fino a € 2.582,28 / € 30,00
  • da € 2.582,29 a € 5.000,00 / € 60,00
  • da € 5.000,01 a € 25.000,00 / € 120,00
  • da € 25.000,01 a € 75.000,00 / € 250,00
  • da € 75.000,01 a € 200.000,00 / € 500,00
  • oltre € 200.000,01 / € 1.500,00

Il giudice tributario deve pronunciarsi anche sulle spese processuali, decidendo a quale parte porle a carico in tutto o in parte. Generalmente viene applicata la regola della soccombenza, secondo cui la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza.

Per cause fino a 3.000 euro di valore, non è previsto l’obbligo di assistenza legale e il contribuente può difendersi anche da solo.

 

Cosa succede se non si paga una cartella esattoriale?

La cartella esattoriale è un titolo esecutivo (ha lo stesso valore di una sentenza definitiva del giudice) e al tempo stesso ha carattere di precetto (ultimo avviso a pagare).

Quindi se la cartella esattoriale non viene pagata entro 60 giorni dalla notifica, oltre all’aggravio delle somme da pagare, il contribuente potrà essere destinatario di una serie di azioni cautelari (fermo amministrativo dell’auto e ipoteche su immobili) ed esecutive (pignoramenti) da parte dell’Agenzia delle entrate – Riscossione.

Le azioni cautelari sono procedure strumentali rivolte a proteggere il proprio credito ed evitare che il debitore distragga o distrugga i beni oggetto delle misure, rendendone poi impossibile il pignoramento.

Questi provvedimenti consentono all’Agenzia delle entrate – Riscossione di sottoporre il bene ad esecuzione forzata anche quando lo stesso dovesse essere venduto. L’eventuale compratore infatti oltre al bene acquisterebbe anche la relativa misura cautelare e potrebbe subire il pignoramento pur non essendo lui il debitore.

Il contribuente deve in ogni caso essere informato anticipatamente riguardo ad ogni azione che l’Agenzia delle entrate – Riscossione intende compiere per il recupero del credito.

Il mancato pagamento comporta l’iscrizione a ruolo del debito, che può avere effetti a lungo termine sulla reputazione creditizia del debitore e quindi la difficoltà nell’accedere a prestiti o altre forme di credito.

Tuttavia per il contribuente è possibile richiedere la rateizzazione del debito per evitare o mitigare le azioni di riscossione.

La rateizzazione blocca le procedure di esecuzione forzata e consente quindi la possibilità di evitare ogni forma di pignoramento.

 

Fermo amministrativo: come funziona

In caso di mancato pagamento di una cartella esattoriale nei termini di legge, l’Agenzia delle entrate-Riscossione può procedere con ulteriori azioni per riscuotere gli importi richiesti dagli enti creditori.

Tra le procedure che è possibile attivare, a garanzia delle somme non pagate, c’è il fermo amministrativo di uno o più beni mobili intestati al debitore.

Prima che la procedura venga attivata, il debitore riceve la comunicazione preventiva (preavviso di fermo) con l’invito a regolarizzare la propria posizione nei successivi 30 giorni.

Trascorsi 30 giorni dalla notifica del preavviso senza che il debitore abbia pagato le somme dovute o senza che ne abbia richiesto la rateizzazione, oppure in mancanza di provvedimenti di sgravio (cancellazione del debito) o sospensione, l’Agente della riscossione procede, senza ulteriore comunicazione, con l’iscrizione del fermo amministrativo al Pubblico registro automobilistico (PRA).

A seguito dell’iscrizione del fermo amministrativo, il veicolo:

  • non può circolare;
  • non può essere rottamato, radiato o esportato;
  • non può essere parcheggiato sul suolo pubblico.

Il veicolo può essere venduto, ma l’acquirente deve essere informato circa il provvedimento che grava sul mezzo (il fermo resta iscritto nonostante la cessione).

Chi guida un veicolo sottoposto a fermo amministrativo rischia una sanzione molto elevata.

Un’ulteriore misura a cui si potrebbe andare incontro è la confisca del veicolo, ovvero una procedura che autorizza il passaggio di proprietà dell’auto all’Agenzia delle Entrate o altro creditore.

Inoltre, se il veicolo sottoposto a fermo amministrativo dovesse circolare e provocare un incidente stradale, la legge prevede che l’assicurazione non è tenuta a pagare gli eventuali danni.

Sospensione del fermo amministrativo

Quando le cartelle per le quali è stato iscritto il fermo risultano oggetto di rateizzazione o di definizione agevolata di tutte le somme dovute, è prevista la sospensione del fermo dopo l’integrale e tempestivo pagamento della prima rata.

Il contribuente potrà tornare a circolare liberamente con il veicolo interessato, ma resteranno in vigore i limiti relativi alla rottamazione e alla vendita.

Revoca del fermo amministrativo

Quando il debito viene integralmente pagato, il fermo amministrativo potrà essere revocato e sarà l’Agenzia delle entrate-Riscossione a provvedere, a proprie spese, alla cancellazione definitiva dai registri del PRA.

Il contribuente, quindi, non deve presentare alcuna istanza.

Esenzione dalla misura cautelare

Anche in caso di mancato pagamento degli importi intimati, il fermo non può essere disposto se, entro 30 giorni dal ricevimento del preavviso di iscrizione, si dimostra che:

  • il bene mobile è strumentale all’attività d’impresa o alla professionale;
  • il veicolo è adibito o destinato ad uso di persone diversamente abili.

Un ulteriore impedimento all’adozione del fermo amministrativo, si verifica nell’eventualità che il bene mobile risulti essere intestato a più soggetti, poiché all’Agenzia delle entrate -Riscossione non è consentito iscrivere il fermo su un bene la cui titolarità non è ad esclusivo appannaggio del debitore.

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Iscrizione ipotecaria per cartelle esattoriali non pagate

In caso di mancato pagamento delle cartelle esattoriali, l’Agenzia delle entrate – Riscossione può iscrivere ipoteca su uno o più immobili del contribuente, anche sulla prima casa.

È dunque una misura cautelare, con la quale l’Agente per la riscossione si assicura che quel determinato bene immobile non possa essere venduto senza che sia stato saldato il debito o senza che il ricavato dell’eventuale vendita non venga destinato in via prioritaria a saldare le somme dovute.

L’ipoteca può essere iscritta solo se il debito complessivo supera 20mila euro, per un importo pari al doppio del credito complessivo per cui l’Agenzia delle entrate-Riscossione procede (per esempio se il credito è di € 30.000, il valore dell’ipoteca è di € 60.000).

Per calcolare il valore complessivo, è necessario fare riferimento alla somma di tutti i crediti iscritti a ruolo a carico del contribuente e non soltanto a quelli di natura tributaria.

Se il debito complessivo eccede la soglia dei 20.000 euro, al fine di evitare un’iscrizione ipotecaria, sarà opportuno pagare almeno una parte del debito e far scendere la somma debitoria sotto tale soglia.

Prima di procedere con l’iscrizione dell’ipoteca, l’Agenzia delle entrate – Riscossione deve notificare una comunicazione preventiva di iscrizione ipotecaria, con la quale avvisa il contribuente che, in caso di mancato pagamento entro 30 giorni, oppure senza che sia stata richiesta la rateizzazione delle somme dovute entro gli stessi termini, procederà con l’iscrizione dell’ipoteca su uno o più immobili.

La mancata notifica della comunicazione preventiva, comporta l’illegittimità dell’iscrizione ipotecaria e il contribuente può agire in giudizio per ottenerne la cancellazione.

Una volta iscritta l’ipoteca, al contribuente non viene notificato alcun ulteriore avviso.

La presentazione dell’istanza di rateazione e il pagamento della prima rata non sospendono l’ipoteca: la cancellazione dell’ipoteca avviene solo a seguito del saldo integrale del debito.

L’ipoteca è legittima e può avvenire anche se la casa è:

  • in comproprietà con il coniuge (o altro soggetto) non debitore: l’Agenzia delle entrate – Riscossione può iscrivere l’ipoteca su una quota, anche minima, di proprietà dell’immobile;
  • iscritta dopo l’assegnazione della casa all’ex coniuge non debitore.

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Pignoramento da parte dell’Agenzia delle entrate – Riscossione: come funziona

La cartella di pagamento dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione è già un atto esecutivo, quindi se non viene eseguito il pagamento nel termine dei 60 giorni dalla notifica, l’Agenzia può procedere direttamente a pignorare i beni del debitore.

L’Agenzia delle Entrate – Riscossione deve iniziare il procedimento con la notifica dell’atto di pignoramento, non oltre il termine di un anno dall’avvenuta notifica del titolo esecutivo.

Se non notifica l’atto di pignoramento entro un anno dall’avvenuta notifica del titolo esecutivo, l’esecuzione forzata deve essere preceduta dall’intimazione di pagamento e il pignoramento non può iniziare prima del quinto giorno successivo alla notifica di quest’ultima.

Di norma i beni pignorabili possono avere ad oggetto:

  • beni immobili;
  • beni mobili (gioielli, denaro contante, arredo, autoveicolo ecc.);
  • beni presso terzi (stipendio, pensione, conto corrente, canoni di locazione, ecc).

Il pignoramento può interessare solo i beni intestati al debitore. In caso di beni cointestati il pignoramento può comunque avere luogo, ma nei limiti della quota del debitore.

Eventuali trasferimenti di beni dal debitore a terzi possono essere annullati dai creditori entro cinque anni dalla registrazione di tali atti nei registri pubblici.

Contro un nullatenente non possono essere intraprese azioni di pignoramento. Tuttavia la legge prevede che ogni persona è responsabile delle proprie obbligazioni sia con i beni attuali che futuri. Quindi, se una persona nullatenente dovesse in futuro acquisire nuovi beni, questi potrebbero essere soggetti a pignoramento.

Pignoramento di beni immobili

Il pignoramento e la successiva vendita all’asta di uno o più immobili (case, terreni, capannoni, box, ecc…) è possibile solo se sono soddisfatte le seguenti condizioni:

  • l’importo complessivo del debito, incluso di interessi e sanzioni, deve superare la soglia di 120.000 euro;
  • il valore totale dei beni immobiliari posseduti dal debitore è superiore a 120 mila euro;
  • sono trascorsi almeno sei mesi dall’iscrizione di ipoteca e il debitore non ha pagato né rateizzato il debito o in mancanza di provvedimenti di sgravio/sospensione.

Tuttavia, anche quando l’Agenzia delle entrate – Riscossione non può procedere con il pignoramento immobiliare, può sempre intervenire nell’esecuzione forzata promossa da un altro creditore.

Il pignoramento immobiliare non si può eseguire se l’immobile è contemporaneamente:

  • unico immobile di proprietà del debitore (anche per quote);
  • adibito a uso abitativo e a sua residenza anagrafica;
  • accatastato a civile abitazione e non di lusso, né villa, né castello (A/8 e A/9).

L’assenza anche di una sola di queste condizioni consente all’Agenzia Entrate Riscossione di intraprendere azioni di pignoramento immobiliare.

Pignoramento di beni mobili

Quando si parla di pignoramento mobiliare si fa riferimento ad un’esecuzione forzata su oggetti e beni mobili come ad esempio:

  • denaro contante;
  • arredamento;
  • opere d’arte;
  • auto, moto;
  • gioielli.

A differenza dell’esecuzione immobiliare o dell’esecuzione presso terzi, il pignoramento mobiliare non presuppone un atto scritto da notificare al debitore.

Il pignoramento deve essere eseguito sulle cose che l’ufficiale giudiziario ritiene di più facile e pronta liquidazione. La scelta avverrà su un compendio di cose il cui presunto valore di realizzo sia pari all’importo del credito precettato aumentato della metà.

Pignoramento presso terzi

Il pignoramento presso terzi è l’atto che avvia l’espropriazione forzata dei crediti che il debitore ha verso terzi (per esempio il conto corrente, lo stipendio, la pensione, i canoni di locazione), oppure beni del debitore che sono in possesso di terzi.

Con questa procedura si richiede a un terzo di versare direttamente all’Agenzia delle entrate-Riscossione quanto da lui dovuto al debitore.

A differenza di quanto avviene nel caso di pignoramento ordinario, il pignoramento presso terzi promosso dall’Agenzia delle entrate – Riscossione beneficia di una procedura semplificata, poiché per l’avvio della procedura non c’è la necessità di richiedere l’autorizzazione al giudice.

Pignoramento dello stipendio e della pensione

Per quanto riguarda il pignoramento dello stipendio la legge ha introdotto dei limiti all’importo pignorabile pari a:

  • un decimo se il credito vantato non supera 2.500 euro;
  • un settimo se il credito vantato è compreso tra i 2.500 e i 5.000 euro;
  • un quinto se il credito vantato è superiore a 5.000 euro.

Non sono previsti stipendi non pignorabili, anche se di ammontare molto basso possono essere oggetto di esecuzione.

Anche il Tfr può essere pignorato, sempre nel limite di un quinto dell’importo netto totale.

Per quanto riguarda la pensione, può essere pignorata, presso l’Ente di Previdenza, una volta detratto il minimo vitale, corrispondente al doppio dell’assegno sociale. Per la parte eccedente tale soglia valgono gli stessi limiti previsti per lo stipendio.

Pignoramento del conto corrente

L’Agenzia delle entrate – Riscossione può bloccare il conto corrente inviando alla banca e al debitore l’atto di pignoramento. A quest’ultimo si danno 60 giorni per pagare quanto dovuto. Se il debitore non procede con il pagamento viene eseguito il pignoramento e le somme presenti sul conto corrente saranno trasferite all’Agenzia delle Entrate Riscossione fino a copertura del relativo debito.

Il pignoramento può avvenire con i seguenti limiti:

  • le somme già depositate in banca alla data di notifica del pignoramento possono essere pignorate solo per l’importo che eccede il triplo dell’assegno sociale;
  • se sul conto corrente è accreditato lo stipendio, il pignoramento non può estendersi all’ultimo emolumento accreditato, che deve restare nella disponibilità del debitore;
  • gli stipendi successivamente accreditati possono essere pignorati entro questi termini:
    • un decimo se il debito non è superiore a 2.500 euro;
    • un settimo se il debito è compreso tra 2.500 e 5.000 euro;
  • un quinto se il debito è superiore a 5.000 euro.

Nel caso di conto corrente cointestato, la banca non potrà pignorare le somme sul conto corrente del debitore, non essendo lui l’unico titolare del conto stesso.

Pignoramento dei canoni di locazione

L’Agenzia delle Entrate Riscossione può pignorare i canoni di locazione o di affitto che il conduttore deve al debitore. In questo caso L’Agenzia delle Entrate Riscossione notificherà al conduttore l’ordine di pagare direttamente all’Agenzia i canoni di locazione/affitto a scadere fino a concorrenza del credito.

Pignoramento dei beni donati

Il pignoramento di beni donati dal debitore è un argomento di pertinenza delle azioni revocatorie, strumenti giuridici finalizzati alla tutela dei diritti dei creditori.

Con l’azione revocatoria i creditori hanno la facoltà di annullare gli atti compiuti dal debitore, (per esempio le donazioni, la vendita di beni a prezzi inferiori al valore di mercato, ecc..) quando questi hanno la finalità di sottrarre patrimonio alla portata dei creditori, pregiudicandone i loro diritti.

L’azione revocatoria non è automatica e richiede la dimostrazione di specifici presupposti.

L’azione revocatoria può essere esercitata entro 5 anni dalla data in cui l’atto è stato compiuto.

Termine che diventa di 10 anni se il creditore dimostra che il donatario era in mala fede.

Se l’azione revocatoria è accolta, l’atto viene annullato e i beni rientrano nel patrimonio del debitore, diventando quindi pignorabili dai creditori.

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Cartelle esattoriali: quando vanno in prescrizione?

La prescrizione è il termine entro cui l’Agenzia delle Entrate – Riscossione si deve attivare per riscuotere il suo credito, in mancanza il credito si estingue e non è più riscuotibile.

Il termine di prescrizione decorre dal momento in cui l’iscrizione a ruolo è esecutiva, ovvero dal 61° giorno dalla notifica della cartella esattoriale.

I termini di prescrizione delle cartelle esattoriali sono differenti e variano in relazione della natura del debito:

  • 10 anni per: Irpef, Iva, Ires, Irap, imposta di bollo, imposta di registro, contributi Camera di Commercio, imposta catastale, canone RAI;
  • 5 anni per: Imu, Tasi, Tari, contributi Inps e Inail, contravvenzioni stradali, sanzioni amministrative;
  • 3 anni per il bollo auto.

Se una cartella esattoriale contiene imposte di natura differente tra loro, i termini di prescrizione sono da considerarsi singolarmente. Per cui una parte della cartella cadrà in prescrizione prima rispetto all’altra.

Generalmente le cartelle esattoriali contengono l’intimazione di pagare non solo l’importo dovuto per le imposte, ma anche le relative sanzioni tributarie e gli interessi che, entrambi, si prescrivono in 5 anni.

Può capitare quindi che una cartella esattoriale non sia prescritta quanto all’imposta, ma sia invece prescritta con riferimento alle sanzioni e agli interessi correlati all’imposta.

Poichè spesso gli interessi e le sanzioni sono di importo molto elevato poter eccepire l’intervenuta prescrizione può comportare una considerevole diminuzione del debito.

L’Agenzia delle Entrate – Riscossione può interrompere i termini di prescrizione originari con un atto esecutivo, ossia un atto che manifesti la volontà del creditore di agire per recuperare le somme che gli sono dovute.

Gli atti che interrompono la prescrizione sono:

  • la notifica di un sollecito di pagamento relativo alla cartella esattoriale;
  • la notifica di un’intimazione di pagamento;
  • la notifica del preavviso di iscrizione del fermo amministrativo;
  • la notifica del preavviso di iscrizione ipotecaria;
  • la notifica di un qualunque atto di pignoramento (mobiliare, immobiliare, presso terzi).

Se l’Agenzia delle Entrate – Riscossione compie uno di questi atti prima del decorso del termine di prescrizione (3, 5 o 10 anni), il termine viene interrotto e inizia a decorrere da capo, a partire dal giorno in cui il contribuente riceve la notifica dell’atto esecutivo.

Infine va ricordato che nel caso in cui il debitore dovesse aver effettuato il pagamento a prescrizione scaduta, non sarà possibile richiedere la restituzione delle somme versate.

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